lunedì 15 dicembre 2014

Il Partito capitale e non solo, al tempo di Matteo (Orfini) e Matteo (Renzi)


Matteo Orfini, Presidente del PD, ha annunciato di aver ottenuto la disponibilità di Fabrizio Barca a verificare lo stato del tesseramento e l'attività nei circoli della capitale, a seguito delle diverse segnalazioni di irregolarità negli ultimi mesi;
la notizia, annunciata nel corso di una partecipata assemblea, convocata presso la biblioteca Elsa Morante del Laurentino 38 e tenuta in piazza per la numerosa partecipazione, è a un tempo, ghiotta  e lusinghiera;

ghiotta, per la formale rottura con il passato, ipotizzando un intervento di un’autorità morale di revisione amministrativa e (inevitabilmente) politica delle sezioni romane del PD (ma che con tutta evidenza incide su una prassi presente in tutte le articolazioni territoriali del partito, sia pure in modo diverso);
lusinghiera, per il riconoscimento (profondamente) politico di un metodo teorizzato da Fabrizio Barca ed oggi oggetto di sperimentazione da parte di un team nazionale e dieci realtà locali, che coinvolgono un migliaio di volontari.

La notazione più spontanea sarebbe “finalmente !”, se non vi fosse una pericolosa ambiguità di fondo, frutto di un retro pensiero, neanche tanto travisato.

Invero, soltanto sotto la spinta di un’emergenza, anche questa volta giudiziaria, si interviene per tentare di contrastare quello che Orfini ha definito rudemente (e forse con affrettata ed emotiva analisi politica) come il vizio … capitale del partito: "Il Pd a Roma negli ultimi anni è stato segnato da un'infinita guerra tra bande e così ha preso in ostaggio migliaia di iscritti e militanti".

L’appello a Barca, sull’onda di un sentimento viscerale ed spasmodicamente ansioso di rinnovamento, ha il difetto di una opacità di obiettivi: ove si tratti di una mera revisione amministrativa, il mezzo appare sproporzionato al fine;
ove invece si voglia identificare la radice della devianza, si pone l’interrogativo della disponibilità del partito ufficiale a riconoscere e, conseguentemente, affrontare quanto risultante dall’attività ricognitiva;

tanto, perché, al netto di quelle che possono essere le temporali irregolarità amministrative, sostanziate da finti tesseramenti e simili altri trucchi elettoral-congressuali, si entra evidentemente nel campo di un’analisi squisitamente politica, laddove, il tentativo (non tanto di accertare, ma quanto piuttosto) di eliminare la devianza  implica la ineludibile necessità  di interrogarsi sulla forma partito, nel senso di identificare ed adottare le modalità organizzative che impediscano il ripetersi di tali episodi;

un partito piegato ai livelli istituzionali scivola pericolosamente verso la forma di comitato elettorale, con i circoli ridotti ad “un indirizzo dove una volta tanto si celebra un congresso”, secondo l’immagine usata da Orfini; tale deriva è, tra l’altro, favorita dall’elezione diretta dei livelli locali, creando un canale diretto tra l’eletto e gli elettori, che spesso prescinde dal partito; quest’ultimo finisce (è costretto a ?) coll’abdicare alla sua funzione genetica di luogo di elaborazione politica del programma, in riferimento ai bisogni degli iscritti e degli elettori, e di selezione della classe dirigente, lungo le coordinate del disegno strategico ed identitario così collettivamente costruito, da cui non può prescindere nessuno soggetto politico. Il progressivo scivolamento per inerzia verso la versione populistica dell’one man’s party ne è la logica conseguenza.

Il “desiderio di essere come tutto” determinato dalla “trasformazione del PD in un “Partito Mondo”, una società a capitale diffuso scalabile”, secondo la tesi di Fuksas, è una suggestiva immagine, che coglie il senso di una forte carenza identitaria, che è, a un tempo, causa ed effetto, di una molteplicità di fattori, sintetizzati nella incapacità dei partiti in genere di tornare ad essere i punti di riferimento interpretativo della società, in funzione della gestione e del cambiamento della stessa; (http://www.pdgiubbonari.net/2014/12/la-mafia-capitale-e-il-desiderio-di-essere-come-tutto/).

L’analisi di questi fattori non può che condurre alla domanda iniziale e finale a un tempo: quale modello di partito per il nuovo millennio ?

La scelta di un attore politico che ha già disegnato un preciso modello organizzativo, guidato dallo sperimentalismo democratico è un preludio ad un cambiamento di prospettiva, che data la situazione, assume necessariamente le sembianze di una rivoluzione totale nel partito per come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, ovvero è un’ipocrita operazione di facciata, promossa per un gattopardesco desiderio di cavalcare un’onda emotiva ?

La risposta non può che essere nell’azione dei veri militanti e dei sinceri elettori, se saranno in grado di rappropriarsi del partito, secondo il nuovo metodo, facendone un vero soggetto politico distinto e distante dalla sfera istituzionale, in un rapporto necessariamente dialettico ma ancor più ineluttabilmente autonomo; la leggenda indiana dei due lupi che albergano nell’animo di ciascuno di noi, uno cattivo e l’altro buono, in perenne lotta tra loro, lotta che vede la vittoria di quel lupo che noi stessi alimentiamo con le nostre passioni, è estremamente calzante alla delineata situazione.


Caro Fabrizio, nel partito al tempo di Matteo (Orfini) e Matteo (Renzi), non sempre si può essere sereni …

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